A Sotto il Monte (Bg) l’incontro con 60 ragazzi di un istituto superiore che svolgono al Pime l’ «alternanza scuola lavoro». Che educatori e missionari se ne occupino con competenza e credibilità – tutta guadagnata sul campo – mi fa ben sperare e mi incoraggia a riconoscere un potenziale di azione da non sciupare sotto il peso di tante chiacchiere sempre rinunciatarie.
Alcuni giorni fa a Sotto il Monte (BG), presso la Casa Natale di papa Giovanni, ho incontrato circa 60 alunni dell’Istituto Superiore “Alessandro Greppi” di Monticello Brianza (LC). Tutti di classe terza (liceo delle scienze umane e di indirizzo economico-sociale) da alcune settimane i ragazzi sono impegnati in un programma di “alternanza scuola lavoro” che vorrebbe coniugare il “sapere” con il “saper fare”, e creare ponti tra chi è ancora sui banchi di scuola e chi è già impegnato nel mondo del lavoro. Il primo passo in questa direzione è del luglio 2015 quando il Parlamento ha approvato la legge 107 sulla Buona Scuola a cui ha fatto seguito, nell’ottobre dello stesso anno, una circolare del Ministero dell’Istruzione nella quale si precisava che l’alternanza scuola lavoro “è in’innovazione storica per l’impatto formativo della scuola italiana perché punta ad aprire le porte delle scuole alle esperienze e alle competenze che si formano fuori dall’aula, unendo sapere esaper fare”.
I 60 studenti, accompagnati dai loro insegnanti, sono venuti nella casa di un istituto missionario, il PIME, per ascoltare la testimonianza di un sacerdote missionario che lavora in Cambogia. Lo confesso subito, ogni qualvolta posso parlare a dei ragazzi in questo modo mi sento privilegiato. Dove altrimenti potrei incontrare così tanti giovani, provenienti da una scuola statale e tendenzialmente distanti dai temi missionari? O ancora, come potrei condividere la mia esperienza di sacerdote in Cambogia e portarla nella scuola, tanto bistrattata dai governanti di ogni colore, ma pur sempre luogo dove le nuove generazioni preparano il loro futuro? Sappiamo infatti quanto l’attuale relativismo e il “politicamente corretto” impediscano ogni tentativo di pervenire ad una verità condivisa, tanto più in materia religiosa, e tutto viene ridotto alla “privacy sicura” delle nostre vite sempre più sole e vuote. Eppure, quello a cui ho assistito è stato uno spettacolo di attenzione e ascolto.
Mentre parlavo ai ragazzi, non ho visto ne udito alcun cellulare suonare. In realtà, una studentessa seduta in seconda fila aveva losmartphone appoggiato sulla gamba sinistra perché, con mia grande sorpresa, stava registrando il mio intervento! Ho parlato per più di un’ora partendo dalla domanda di un altro studente, questa volta seduto in ultima fila, che mi chiedeva quali fossero le note distintive, i problemi maggiori, dell’istruzione scolastica in Cambogia. Ad un primo sguardo mi pareva di intuire che quello studente si fosse seduto così in fondo all’aula per tenersi a fianco una studentessa. Appoggiati l’uno all’altra, sembrava esserci tra loro un certo feeling … Eppure, tutt’altro che distratti, hanno piuttosto dato il “la” alla mia testimonianza.
L’Ufficio Educazione alla Mondialità (UEM) che fa capo a Fondazione Pime Onlus e ha sedi distaccate a Busto Arsizio e a Sotto il Monte, da circa 17 anni si occupa di portare l’esperienza missionaria nelle scuole di Milano e provincie limitrofi. Nel contesto dell’alternanza scuola lavoro, gli educatori del Pime hanno quindi ideato un percorso con lo scopo di mettere a disposizione degli studenti “il patrimonio materiale e immateriale della Fondazione”. Se infatti la circolare raccomanda di “favorire l’orientamento dei giovani studenti per valorizzare le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento”, offrire loro l’opportunità di imbattersi in una realtà come Fondazione Pime Onlus che sostiene i missionari in 18 diversi Paesi, è in perfetta sintonia con la legge e aiuta a superane le derive burocratiche. Che il Pime attraverso i suoi educatori, e i suoi missionari, si occupi di “alternanza scuola lavoro” con competenza e credibilità – tutta guadagnata sul campo – mi fa ben sperare e mi incoraggia a riconoscere un potenziale di azione da non sciupare sotto il peso di tante chiacchiere sempre rinunciatarie.
La circolare ministeriale prevede 400 ore di lavoro per le scuole ad indirizzo tecnico professionale e 200 ore per i licei. Ore nelle quali deve accadere l’interazione fra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. “Progettare la solidarietà” è il titolo del programma e l’incontro con il sottoscritto rientrava tra le attività formative proposte. L’esperienza di Fondazione Pime e l’esperienza dei missionari a completo servizio della scuola per rendere gli studenti capaci di “progettare la solidarietà”. Incontrandoli, non ho potuto tacere ciò che ho vissuto sulla mia pelle: lo studio della lingua Khmer parlata in Cambogia, la fatica del cambiamento di luogo, clima e cibo, l’imbarazzo iniziale vissuto in missione trovandomi dinnanzi a problemi senza soluzioni eppure chiamato da Dio a stare senza fuggire, l’importanza di capire il contesto geopolitico che ha causato un trentennio di guerre in quell’angolo di Indocina, le ingiustizie e la voglia di riscatto di un popolo diventato ormai “mia seconda casa”. Solo l’esperienza personale e l’esperienza pluriennale di Fondazione Pime nel “progettare la solidarietà”, hanno dato al sapere condiviso un certo sapore. “Come si costruisce un progetto nel sociale” era uno degli obiettivi immediati. Per questo gli studenti sono stati divisi in gruppi, ciascuno con un progetto da realizzare simulando la situazione e i processi necessari. Lo staff dell’UEM ha condiviso conoscenze, indirizzi utili in Italia e in Cambogia, esperienze (qui si inserisce il mio intervento), al fine di aiutare ciascun gruppo a realizzare una simulazione, inviando e-mail, raccogliendo informazioni, scrivendo ad associazioni (in inglese se con sede in Cambogia), e ideando un reale progetto di sviluppo. Questo concerto di idee e di azioni va sotto la definizione di “project work”, ovvero attività finalizzate non solo a sapere ma anche a saper fare. La simulazione, a seconda del gruppo, poteva riguardare la sorte di “un ospedale in contesti di guerra, scuole in foresta, rifugiati, ragazzi di strada, microcredito, ecc.”, offrendo agli studenti la possibilità di giocarsi nelteam working e nel problem solving, necessari allo sviluppo dei progetti. Ho notato molto interesse e capacità di ascolto che hanno fatto sorgere domande pertinenti relative a ciascun ambito di sviluppo indicato. Tutto ben oltre la burocrazia che spesso appesantisce, se non addirittura scoraggiare, il lavoro di insegnanti e alunni.
Durante l’incontro ho più volte ripetuto ai ragazzi che “è meglio sbagliare che non rischiare” e che con “un cuore pieno di battiti” tutto può cambiare. Anche nella scuola spesso si assiste ad “un sostanziale incremento di burocratizzazione del legame sociale”1 fino ad un vero e proprio “svilimento burocratico della convivenza”. In questo senso condivido l’opinione di Ernesto Galli della Loggia che sulle pagine del Corriere della Sera (3 gennaio 2017) a proposito della scristianizzazione scriveva: “Contrariamente a quanto immaginavano gli illuministi (quelli francesi, non quelli anglosassoni), la scristianizzazione non ha eliminato la “superstizione”, non ha reso gli europei “più razionali”. Ha invece aperto la strada a varie forme di regressione culturale”. Ora, ciò che muove i missionari, qui a scuola come in Cambogia, non è più una preoccupazione apologetica, difendere Dio in mezzo ad un mondo di atei o di infedeli, quanto il desiderio di riscattare l’uomo da un possibile depotenziamento dei sensi e dell’immaginazione e da quella pericolosa “regressione culturale” che ne deriva e che la burocratizzazione del legame sociale promuove. Fino alle drammatiche conseguenze che da anni contraddistinguono, inquinandola, la scena politica italiana, quella di una “regressione pura e semplice alla interpretazione del rapporto erotico come scenario virtuale di ogni relazione possibile dell’umano”2.
Quella mattina con gli educatori del Pime abbiamo condiviso con i ragazzi tutt’altri scenari. Perché “nessun metraggio ci contiene / nessun confine di sponda / nessun nome è bastante / in nessuna foto noi veniamo / nessuna telecamera riprende per intero / questo essere nostro che slegato si estende / tutto impastato di infinità”.3 Il 13 febbraio ritorno in Cambogia, incoraggiato dai ragazzi di Monticello Brianza.